Nella cena del Signore

Giovedì Santo in Cattedrale
28-03-2024

Es 12,1-8.11-14; Sal 115 (116); 1 Cor 11,23-26; Gv 13,1-15

Questa sera, nell’Eucaristia che stiamo celebrando, siamo immersi nella vicenda di Gesù degli ultimi giorni, quando a Gerusalemme Lui ha inteso portare a compimento quanto il Padre gli ha donato e affidato: il suo amore senza limiti. Stamane nella Messa del Crisma eravamo agli inizi della missione di Gesù, quando a Nazareth, leggendo le parole del profeta Isaia: «Lo Spirito del Signore è su di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio», Gesù apriva «l’anno di grazia del Signore», presentando e donando se stesso: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato» (cfr. Lc 4,16-21). Questa sera siamo alle soglie della sua Pasqua: «Prima della festa di Pasqua, Gesù, sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mono li amò sino alla fine». Iniziati al Triduo pasquale, siamo qui a condividere – accogliendolo rinnovatamente – questo “amore sino alla fine”. La cena di cui racconta l’evangelista Giovanni assume questo significato pasquale di un “amore sino alla fine”. Paolo, nella lettera ai Corinzi, lo vive pienamente: «Ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso: il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane e, dopo aver reso grazie, lo spezzò […]. Allo stesso modo dopo aver cenato, prese anche il calice […]». Ai Corinzi, così come a noi stasera, Paolo partecipa questo “amore sino alla fine” e ci coinvolge in esso: «Ogni volta infatti che mangiate questo pane e bevete al calice, voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga».

Che possiamo dire di noi? delle nostre vicende di vita? del cammino delle nostre comunità? del nostro essere in questo mondo? E, poi, che dire delle nostre fatiche e dei nostri dolori, delle nostre attese e di quanto ci fa vivere e ci arreca gioia? Che possiamo dire di tutto questo? Il pane che Gesù ha preso nelle sue mani e ha spezzato per donarcelo in cibo e il vino che egli versa nel calice per noi raccontano chi noi siamo, svelano la nostra verità. Non solo: tutto questo porta a compimento anche la nostra vita, «finché egli venga».

Siamo stupiti del fatto che Gesù ha scelto di convocare a cena i suoi discepoli per «passare da questo mondo al Padre». Sì, “ogni volta che noi mangiamo questo pane e beviamo a questo calice noi annunciamo la sua morte nell’attesa della sua venuta”. Nelle fibre del nostro corpo, nel laboratorio complesso dei nostri pensieri, nell’articolato intreccio della nostra affettività, nelle profondità insondabili del nostro mondo interiore, in tutto di noi, siamo stati raggiunti da quell’“amore sino alla fine” della Pasqua di Gesù.

L’evangelista Giovanni, profondamento turbato, dall’esperienza del tradimento a cui Gesù ha dovuto far fronte, nel momento in cui «amò sino alla fine», ci consegna stasera un gesto di Gesù che raccoglie e dispiega tutta la sua vita e la sua missione: «Durante la cena, quando il diavolo aveva già messo in cuore a Giuda […] di tradirlo, Gesù, sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che era venuto da Dio e a Dio ritornava, si alzò da tavola, depose le vesti, prese un asciugamano e se lo cinse attorno alla vita. Poi versò dell’acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l’asciugamano di cui si era cinto».

Carissimi, Gesù è ai piedi di ciascuno di noi. Qualsiasi sia la nostra reazione, egli risponde così: «Se non ti laverò, non avrai parte con me». È il massimo di amore quello spezzato e versato nella cena di Gesù: un amore che suscita amore, che chiama e genera il nostro voler bene, che si dà perché la nostra libertà sia lavata, sia vivificata, sia sostenuta e diventi un inizio di “storia d’amore” anche in noi.

Ecco la Sua e nostra Pasqua: «Perché anche voi facciate come io ho fatto a voi».