Apocalisse 3, 1-6. 14-22; Salmo 14; Luca 19, 1-10
Vi posso confidare la mia commozione nel trovarmi con voi, studenti universitari, con questi amici preti, con i direttori, con docenti e personale dell’università di Padova.
A volte dalle finestre della casa che abito a Belluno guardo lo scorrere del Piave. Mi colpisce il letto del fiume: senza di questo dove andrebbe l’acqua? Come il fiume, mi sono sentito scorrere una buona parte dei miei anni di ministero in questa preziosa realtà che accompagna e cerca di promuovere la vostra avventura accademica, carissimi studenti.
È sempre nuovo il mio grazie! Posso estenderlo anche a voi, questa sera. Lo scorrere dei vostri anni all’università è un fiume vitale per il territorio e i paesi e le città che lo abitano.
Un saluto carico di affetto va agli studenti che provengono dal territorio della Diocesi di Belluno-Feltre. Simpaticamente mi viene da definirli “i miei datori di lavoro”, come se desiderassi di essere loro “dipendente”. Sarebbe per me un lavoro inedito, provocante, creativo…
Ora posso planare sulla Parola che ci è stata donata e che insieme abbiamo ascoltato. È davvero decisivo ascoltare. Nella vita non c’è esperienza più costruttiva: ascoltare. Il peggio che possa capitare a ciascuno di noi è di non essere ascoltato sul serio da nessuno… Sarebbe tragico. Tutti noi sappiamo bene che amicizia e amore sono possibili solo in un gioco di ascolto. Quando abbiamo bisogno dell’altra persona, prima di toccarla, prima di averla dalla nostra parte le chiediamo di ascoltarci. Se non c’è ascolto si rischia di possedere l’altrui persona.
E, allora, è straordinariamente umano, anzi profondamente umano quello che abbiamo letto nella prima lettura. Si tratta della quinta e dell’ultima di sette lettere che l’autore dell’Apocalisse mette in bocca al Veniente. In ogni lettera c’è un accorato appello: Chi ha orecchi, ascolti ciò che lo Spirito dice alle Chiese.
È interessante: “lo Spirito dice”. Infatti lo Spirito è come il soffio che porta la parola e che emettiamo per pronunciare la parola e comunicarla.
Cosa significa tutto questo?
Il Dio di cui si narra nella Bibbia desidera parlare, comunicare, entrare in familiarità, sentirsi coinvolto… C’è un’espressione che colpisce nei documenti del Concilio Vaticano II. È scritto:
«Con questa rivelazione infatti Dio invisibile per la ricchezza del suo amore parla agli uomini come ad amici e si intrattiene con loro per invitarli e ammetterli alla comunione con sè» [DV 2].
Dio non si fa vedere, non appare, ma parla e chiede ascolto, anzi lui stesso ascolta, perché anche noi abbiamo parola nella nostra ricerca di lui.
Alle persone a cui vogliamo bene desideriamo parlare ed essere da loro ascoltate.
Mi piace dirvi così: Gesù è questo Dio che passa, visita, cerca, si perde e chiede di prendere la parola, di entrare in comunicazione. Nell’Apocalisse, in particolare in queste lettere, si presenta come il Vivente che desidera parlare alla sua Chiesa…
L’ascolto di questa Parola è incontrarlo.
Risulta commovente il desiderio espresso alla fina della settima lettera, l’ultima che raccoglie tutte le altre. È un desiderio non consumato e che resta aperta su noi che oggi ascoltiamo:
«Ecco: sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me».
“Se qualcuno ascolta…”: sentiamo la delicatezza di questo desiderio, di questa ricerca, di questa attesa. Vuole dirci una parola…
Ma io lo ascolto? Tu lo ascolti? Noi qui lo ascoltiamo?
Nella prima lettera, letta ieri, era detto alla Chiesa di Efeso, la chiesa madre di tutte le altre sei:
«Ho da rimproverarti di aver abbandonato il tuo primo amore» [Ap 2,4].
Senza amore non c’è vita piena. Anzi senza amore non tiene e non regge la vita. Alla Chiesa di Efeso è detto che senza amore, senza carità non c’è Chiesa.
Potrei chiedervi: e voi avete trovato amore nelle comunità di fede da cui provenite, in cui siete cresciuti, a cui fate riferimento? Ma più ancora: tu puoi dare amore?
È la domanda essenziale che Gesù pone.
Come è raccontato nella prima lettura il raffreddarsi dell’amore fa finire una storia, una vita, una condivisione, una città, una società, una Chiesa, una fede…
Ed ecco il tentativo di mascherare questa insulsaggine: «Sono ricco, mi sono arricchito, non ho bisogno di nulla».
Ma la parola che induce all’amore ci dice: «Ma non sai di essere un infelice, un miserabile, un povero, cieco e nudo».
“Ascolta” e “apri” è un coraggioso invito a quel “primo amore” che dice lo Spirito alle Chiese…
Sì, forse è successo così a Zaccheo. Il racconto ci sorprende. Gesù non predica a Zaccheo, non lo convince e non lo converte…
Zaccheo ascolta:
Gesù alzò lo sguardo e gli disse: «Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua».
Zaccheo gli apre la porta.
E Gesù diventa un amico con cui cenare insieme.
Noi chiamiamo amicizia e amore tutto questo…
Ci chiede la libertà e il coraggio dell’ascolto, di saper aprire…
Senza amore non c’è fede, né Chiesa e – vorrei dire di più – non c’è studio che valga, non ci sono amicizie che contino, diplomi o lauree o dottorati che possano renderti realizzato e felice nella vita, non c’è professione che dia dignità a te e a chi incontri, senza amore non c’è neppure una società giusta e neppure culture che arricchiscano…
Nel racconto che precede quello di Zaccheo, c’è un cieco che cerca Gesù e grida per raggiungerlo. Alcuni lo mettono a tacere, ma Gesù lo ascolta e gli pone una domanda intrigante:
«Che cosa vuoi che io faccia per te?». Gesù glielo chiede, perché non fa nulla senza la libertà di quella persona, senza la sua verità, senza la sua adesione, senza il suo rischiare…
Ma se lo chiedesse a me, a ciascuno di voi, questa sera, così nudamente: «Che cosa vuoi che io faccia per te?», che cosa gli chiederemmo ciascuno di noi?