II domenica di Quaresima

Cappella Centro Giovanni XXIII
08-03-2020

Gn 12,1-4a; Sal 32 (33); Tm 1,8b-10; Mt 17,1-9

Questa Parola che abbiamo riconosciuto come “Parola di Dio e del Signore Gesù” entra nella nostra vita, riguarda l’oggi che noi viviamo, è “buona notizia” per questo nostro tempo.

Sembra aprire una breccia di benedizione, di grazia, di luce in questi giorni che stanno mettendo tutti alla prova.

«In te si diranno benedette tutte le famiglie della terra» (Gn 12,3). Sono le parole di futuro consegnate ad Abramo, ormai avanzato negli anni. Dio lo chiama ad uscire, ad aprirsi ad una nuova promessa per la quale spendersi e vivere.

Ma è anche quanto abbiamo esclamato nella preghiera del salmo: «Dell’amore del Signore è piena la terra». C’è un amore che non ci abbandona. Sono fuori luogo, in questi giorni, le voci di chi si azzarda a parlare diversamente da questa Parola di vita e di speranza che ci incoraggia.

San Giovanni XXIII, in apertura del Concilio, agli inizi degli anni ’60, disse: «A noi sembra di dover dissentire da cotesti profeti di sventura, che annunziano eventi sempre infausti, quali che incombesse la fine del mondo». La santità si manifesta così: comunica parole e gesti di speranza e di salvezza a tutti.

Nella seconda lettura l’apostolo Paolo rivolto a Timoteo ricorda che: «Cristo Gesù ha vinto la morte e ha fatto risplendere la vita e l’incorruttibilità» (2Tm 1,10).

Lasciamo, allora, che il racconto del Vangelo, appena ascoltato, entri nel nostro vissuto per arrecarvi consolazione e amore.

È il racconto della Trasfigurazione. Noi chiamiamo così questo evento successo «in disparte, su un alto monte», dove Gesù conduce tre dei suoi discepoli: Pietro, Giacomo e Giovanni. È come un improvviso lampo di luce che fa cogliere qualcosa di eccezionale, fino anche ad accecare per cui si riesce a descrivere l’accaduto con un certo imbarazzo, per evocazione, accennando solo ad alcuni effetti.

Qualcosa di simile deve averlo provato Mosè sul monte Sinai dove aveva potuto scorgere non proprio il volto di Dio, ma «le sue spalle» (cfr. Es 33,19-23). E, poi, successe ad Elia salendo sullo stesso monte per vedere Dio, ma poté solo percepire «una voce di silenzio sottile» (1Re 19,12).

L’evangelista Matteo, immediatamente prima di questo racconto della Trasfigurazione, riporta queste parole di Gesù: «In verità io vi dico: vi sono alcuni tra i presenti che non moriranno, prima di aver visto venire il Figlio dell’uomo con il suo regno» (Mt 16,28).

Ora qui «in disparte, su un alto monte» Gesù, in un evento luminoso, manifesta ai tre discepoli che c’è un rapporto intimo e profondo, anzi trasfigurante, tra Lui e Dio. Lì appare che Egli è il Figlio amato, sul quale Dio ha posto il suo compiacimento.

Una persona umana è sempre trasfigurata da Dio, in quanto destinataria del suo amore che rigenera e trasforma. Appare così la verità più profonda di ognuno; essere figlio amato, figlia amata. E Dio non può che compiacersi di lui, di lei.

Dio ti fa bello, luminoso, vero, buono, amabile e ammirabile. Lo sperimentano subito i discepoli, per cui Pietro, sbalordito, confida a Gesù: «È bello per noi essere qui!». Riconoscono Gesù in Dio e ne restano affascinati.

C’è tanto bisogno per tutti noi di intravedere quanta luce di bellezza Dio crea nella vita di ciascuno di noi. Ecco perché è decisivo mettersi al seguito di Gesù.

Ci colpisce sempre, quando preghiamo il salmo 139, questa confidente parola che il salmista rivolge a Dio: «Mi hai tessuto nel grembo di mia madre. Io ti rendo grazie: hai fatto di me una meraviglia stupenda».

C’è in tutti noi un germoglio di trasfigurazione. Non siamo soltanto le inquietudini, le paure, il disorientamento, il “non saper cosa fare” di questi giorni in cui sembriamo in balia di un virus che è improvvisamente comparso e si muove indifferente, come se esso si prendesse gioco di noi. In ogni situazione in cui qualcosa ci sovrasta, noi percepiamo la nostra fragilità, la condizione di incertezza in cui viviamo. Eppure la vita che abbiamo ricevuto è ben oltre ciò che noi stessi riusciamo a realizzare e gestire. I discepoli di Gesù conoscono bene questa precarietà, che in tante situazioni della vita si manifesta. Essi, allora, guardano a Gesù, si incamminano con lui perché, come afferma Paolo nella seconda lettura, «ci ha chiamati con una vocazione santa».

Anche in questi giorni, anzi proprio per quello che sta succedendo in questo tempo, siamo ancor più sollecitati a cercare quel “è bello” riconosciuto da Pietro dinnanzi a Gesù.

I gesti e le parole da parte di Gesù indicano quello che in questi giorni ci è possibile accogliere, sperimentare e condividere: il suo tocco trasfigurante e le sue parole di risurrezione rivolte ai tre discepoli che «caddero con la faccia a terra e furono presi da grande timore». Eccole: «Alzatevi e non temete».

Inoltre per dare il senso del cammino ancora da percorrere, Gesù ai tre discepoli dice di non parlare a nessuno di quanto successo, poiché prima il Figlio dell’uomo dovrà risorgere dai morti.

Non dobbiamo lasciare il cammino: ci sono dei passi ancora da fare. C’è ancora vita da accogliere nella nostra vita, ancora amore da riversare nel nostro esitante voler bene. C’è soprattutto un ascolto da prestare che è aprirsi, uscire, andare oltre, come fu per Abramo. È la consegna di Dio stesso: «Ascoltatelo!».

Sì, come i tre discepoli con tutte le nostre paure, le fragilità e spesso con tante incomprensioni, ci aiuteremo a fidarci di lui a metterci al suo seguito, sui suoi passi. Non dimentichiamo: sono passi di un Figlio amato, in cui Dio si compiace.