Es 24,3-8; Sal 115 (116); Eb 9,11-15; Mc 14,12-16.22-26
Percorso il cammino della Pasqua, raccolto l’invito di Gesù che lascia fisicamente i discepoli e dice loro di andare in tutto il mondo per donare il Vangelo ad ogni creatura, confermati in questa dislocazione di luoghi e di tempi dalla celebrazione della Pentecoste, eccoci a ritornare lì dove Gesù prima della passione ha voluto preparare e mangiare la Pasqua con i suoi discepoli.
Qualcosa di profondo ci lega ai gesti di Gesù di quella sera in cui avvenne l’Ultima Cena.
È commovente quanto riporta l’evangelista Marco: «Il Maestro dice: Dov’è la mia stanza, in cui io possa mangiare la Pasqua con i miei discepoli?». Il contesto è di forte tensione. Gesù ha dovuto dare dei segnali ai due discepoli che invia in città. Egli è ricercato. Si sta preparando un processo contro di lui. Mentre Gesù desidera uno spazio di intimità dove ritrovare le convinzioni più profonde per prendere in mano la propria vita in piena libertà e per aprirla alla fedeltà di Dio e, dunque, donarla: «Prendete questo è il mio corpo». Nelle parole sul calice Gesù si proietta in un’altra dimensione: «In verità io vi dico che non berrò mai più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo, nel regno di Dio».
Chissà il disorientamento dei discepoli in quel momento… mentre stava covando la trama di un tradimento nei riguardi di Gesù. Non possiamo lasciare quell’Ultima Cena di Gesù. Occorre riandarci continuamente. Non tanto per devozione o per fare un piacere a Gesù e neppure per proclamare il miracolo. È lì, in quei gesti, in quei segni, in quelle parole, con quei sentimenti che si capovolge tutto quanto. La scelta di Gesù è di consegnarsi nelle nostre mani, addirittura di buttarsi nella bruttezza del male, di entrare a capofitto nell’ingiustizia che a volte cova nel cuore della storia di noi umani.
Le parole sul calice attestano il dono totale della sua vita: «Questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti».
Nella lettera agli Ebrei, probabilmente pensando all’Ultima cena, l’autore dice di Gesù: «Egli entrò una volta per sempre nel santuario, non mediante il sangue di capri e di vitelli, ma in virtù del proprio sangue, ottenendo così una redenzione eterna».
La Lettera agli Ebrei riconosce compiuto in Gesù ciò che racconta la lettura dell’Esodo: «Mosè prese il sangue e ne asperse il popolo, dicendo: “Ecco il sangue dell’alleanza che il Signore ha concluso con voi sulla base di tutte queste parole!”».
L’evangelista Marco nel Vangelo proclamato ci ha raccolti in quella “grande sala, arredata e già pronta, al piano superiore”: oramai Dio si fa presente così, si dà come alleato, non semplicemente per dei sacrifici da compiere o dei comandamenti da adempiere, ma perché giorno dopo giorno anche noi entriamo in alleanza: quando cioè la vita si libera dall’inimicizia e diventa coraggio d’amare e cura vicendevole.
Nelle parole del salmo 115 (116), mi sembra che possiamo riconoscere questo passaggio pasquale che la celebrazione di ogni Eucaristia ci chiama e ci conduce a fare: «Agli occhi del Signore è preziosa la morte dei suoi fedeli. Io sono il tuo servo, figlio della tua schiava: tu hai spezzato le mie catene».
Sì, nessuna morte può impedire che Dio sia il nostro alleato. Tutte le nostre schiavitù in Gesù sono sciolte. Tutte le nostre catene sono spezzate!