Nelle esequie di don Angelo Bellenzier

Omelia in Cattedrale a Belluno
01-09-2018

1 Cor 1, 1-9; Sal 144; Mt 24, 42-51

«Una generazione narra all’altra le tue opere, annuncia le tue imprese».

Queste parole del salmo 144 ci raccolgono qui, stamane, nella nostra Cattedrale per ricevere dalla vita, dal cammino di fede e dal ministero di questo nostro confratello presbitero Angelo la narrazione delle opere del Signore. L’accogliamo come annuncio delle “sue imprese”. C’è un “quinto vangelo” da scoprire come “tesoro nascosto” nel campo della vita di ogni discepolo di Gesù, una “pietra preziosa” da trovare, riconoscere e preferire.

Siamo anche consapevoli che una generazione di preti sta ponendo nelle mani dei più giovani non “cose che passano”, ma l’opera stessa di Dio.

La nostra fede ne è consolata. La nostra Chiesa di Belluno Feltre e il nostro stesso presbiterio possono intonare il loro Magnificat: «Grande è il Signore e degno di ogni lode; senza fine è la sua grandezza».

Don Angelo era fiero della “grandezza di Dio” che ha potuto tramettere nella sua vita e nel suo lungo ministero. In particolare ci teneva alle sue omelie. L’intenzione di pubblicare questo frutto della sua testimonianza e del suo insegnamento attesta che per lui – anche nella fase ultima della sua vita – è rimasta attivata l’urgenza di annunciare il Vangelo.

Nel periodo in cui non poteva più frequentare la Cattedrale non aveva smesso di perseguire questo sogno: «Una generazione narra all’altra le tue opere, [Signore]». L’appartamento, dove risiedeva in via Feltre, continuava ad essere un laboratorio di annuncio. Non solo: era davvero compiaciuto quando alcuni fedeli lo raggiungevano per celebrare il sacramento della Penitenza.

La generosità del suo cuore e la sua affettuosa disponibilità trapelavano dalle parole con cui puntualmente nel visitarlo mi aggiornava su come continuava ad esercitare il ministero.

Questa nostra Cattedrale era diventata un po’ più vuota senza la sua presenza fisica, senza il suo presidio come confessore. Ma in qualche modo l’aveva esportata nella sua abitazione.

Nella stagione che ne è seguita – quella della sua infermità – don Angelo ha gradualmente percepito che l’esercizio del suo ministero subiva una potatura che a volte lo ha sconfortato. Negli ultimi tempi ha mostrato nel proprio corpo – un tempo robusto e ardito – i segni di una consumazione che, giorno dopo giorno, gli ha fatto percepire la fragilità come la condizione più misteriosa in cui impatta la vita, la nostra stessa fede, il nostro stesso ministero.

Mi è parso un paradosso tutto questo rispetto ai racconti che don Angelo mi aveva fatto nel soccorso alpino dalla sua Alleghe e sulla grande montagna del Civetta.

Ma l’eco di tali imprese non è stata cancellata dal venire meno della forza fisica e psicologica. Noi crediamo che neppure lo spegnimento della morte abbia questo potere. “Soccorrere” è stata la sua vocazione. Generosità ed entusiasmo non sono stati sostituiti bensì custoditi dalla fragilità che don Angelo ha abitato.

 

Il giorno in cui don Angelo ci ha lasciato, noi abbiamo ascoltato una Parola che ha già abbracciato questo nostro confratello, lo sostiene, ne raccoglie anche le lacrime di pianto e lo consacra con un olio di nuova letizia, nella Pasqua stessa di Gesù:

«Chi è dunque il servo fidato e prudente, che il padrone ha messo a capo dei suoi domestici per dare loro il cibo a tempo debito? Beato quel servo che il padrone, arrivando, troverà ad agire così! Davvero io vi dico: lo metterà a capo di tutti i suoi beni».

Assieme a queste parole Gesù ci dice che non sappiamo «il giorno in cui verrà il Signore». Sono parole che non chiudono una vita, ma la aprono a una infinita chiamata.

Per don Angelo il Signore è venuto nel giorno del grande abbraccio: «Beato quel servo!».

E noi, ancora in cammino «di generazione in generazione», confidiamo nell’annuncio consegnatoci dall’apostolo Paolo:

«Degno di fede è Dio, dal quale siete stati chiamati alla comunione con il Figlio suo Gesù Cristo, Signore nostro!».