Nelle esequie di don Giuseppe Bortolas

Chiesa parrocchiale di Venas di Cadore
12-04-2021

 

Letture bibliche: At 3,1-10; Sl 104; Lc 24,13-35

Mercoledì scorso 7 aprile – quando è iniziato il nostro trepidare a motivo del presunto ritardo di don Giuseppe all’appuntamento serale dell’Eucaristia nella chiesetta della Pietà a Valle – eravamo in ascolto della Parola di Dio che poco fa abbiamo ancora ascoltato.

Questa Parola ci ha aperto un varco difficile da attraversare, ci ha immesso in un inimmaginabile percorso. Prima ancora che potessimo toccare con mano la condizione estremamente grave della salute fisica di don Giuseppe, questa Parola ci ha condotto altrove. Ci ha riportati nel cuore della nostra fede, lì dove il nostro sentire profondo si smaschera di ogni formalità e si fa semplice, trasparente, immediato. È il punto in cui realmente si impara la vita e si diventa genuinamente umani. In questa verità quella Parola ci ha portati nei giorni successivi. Similmente a quell’uomo disabile, di cui parla il racconto degli Atti, noi eravamo a chiedere qualche cosa. Solo ora è possibile accorgerci che le parole dell’apostolo Pietro sono quelle stesse che in questi giorni don Giuseppe, in tutto lo spessore granitico della sua umanità e con tutta la freschezza della sua fede, sta infondendo nei nostri sentimenti, nelle nostre lacrime, nel nostro rimpianto, nei nostri ricordi: «Non possiedo né argento né oro, ma quello che ho te lo do: nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, àlzati e cammina!» (At 3,6). Sì, don Giuseppe, in nome di questa forza salvifica del nome di Gesù Cristo, gli ha dedicato la sua vita, l’ha messa a repentaglio per lui e si è svuotato di oro e di argento. Questa salute-salvezza l’ha sognata, desiderata, attesa, provocata nel sorriso di ogni bambino, di ogni ragazzo e giovane, di ogni adulto e, soprattutto, di ogni persona bisognosa o sofferente che incontrava.

Sono giorni di Pasqua quelli che stiamo vivendo, ripensando al nostro don Giuseppe. Una cosa la posso dire con verità di cuore e con commozione: don Giuseppe voleva dare molto di più di quanto gli è stato possibile, lungo questi interminabili mesi di pandemia, a queste tre comunità di Cibiana, Valle e Venas. Così come lo aveva fatto attraversando in diagonale tutta quanta la diocesi, seminando ovunque quell’umanità reale che gli apparteneva e che dava concretezza alla sua fede e al suo ministero. Anche lì dove ha maggiormente sofferto, egli ha mantenuto sempre tanta dignità, lealtà e disponibilità. Più volte in questo tempo mi ha confidato che gli mancava la possibilità di un incontro più familiare, più fraterno, più amicale con tutti, proprio con tutti. La sua barba, che poteva sembrare inusuale nella figura del parroco, simile ad un macigno sul suo volto, in realtà veicolava la sua bontà e affabilità di pastore che si protendeva verso il suo gregge.

C’è un momento in cui mi è sembrato che don Giuseppe stesse attuando quello che desiderava fosse una parte importante del suo ministero. Fu l’estate scorsa durante il Grest. Nel mondo dei bambini, dei ragazzi, dei giovani era in un habitat che gli piaceva, che lo rendeva uno di loro. Lo ricordo con la maglietta un po’ tirata, a motivo della sua robusta corporatura, ma era un ragazzino nella sua giovialità, nel suo entusiasmo, nel suo compiacimento. A me ha testimoniato quella gioia del Vangelo che gli apparteneva. Ciò che di più prezioso ci ha lasciato don Giuseppe è il suo desiderio di votarsi, consegnarsi, lasciarsi incontrare da tutti, da ciascuno. Il suo andarsene ci lascia con questo senso di inadempimento che ci stringe il cuore. Con la sua franchezza ruvida, ma efficace, ora sembra farci eco delle parole del compagno di strada dei due discepoli di Èmmaus: «Stolti e lenti di cuore a credere in tutto ciò che hanno detto i profeti! Non bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?» (Lc 24,25-26).

Don Giuseppe ha ben conosciuto il patire e mai ha illuso o tradito questa sofferenza interiore, neppure nei suoi risvolti psicologici e fisici. Ha lottato in essa per scioglierla e aprirla. Quando con la comunità di Longarone, di Igne, di Ospitale ha affrontato la drammatica scomparsa di don Francesco Cassol, don Giuseppe si era pronunciato così: «La fede è fede, il dolore è dolore. E questo è un grande dolore!». Ecco perché il suo ministero, il suo stile, il suo tenore di vita erano inclini alla sostanza delle cose, alla loro nuda concretezza, allo spessore umano delle relazioni, ad una fede reale senza contorni inutili. Per cui anche la sua predicazione era franca e spiazzante, ma consistente di fede che lui viveva.

Ora i nostri occhi sono qui puntati sullo spezzare il pane che ci ha raccontato l’evangelista Luca. Don Giuseppe desiderava che tutti voi, suoi parrocchiani, ne aveste un pezzo. È il suo volervi bene, è il di più che ha atteso per voi. Ora sembra dirci in tutta verità, senza fronzoli, in quella franchezza che lo caratterizzava: «Non ardeva forse in noi il nostro cuore mentre egli [il Signore] conversava con noi lungo la via, quando ci spiegava le Scritture?» (Lc 24,32). Riconosciamo lo stupore dei due discepoli di Èmmaus nelle parole d’amore con cui don Giuseppe vi ha formulato il suo augurio, nell’ultimo foglietto degli avvisi. Sono anche il suo inaspettato saluto: «Un grande e sincero augurio di una serena Pasqua in ciascuna delle situazioni nelle quali ci troveremo a vivere, a condividerla con le persone a noi più care, anche se non fossero presenti. E, speriamo, BUONA SCUOLA A TUTTI!!!».