Oggi, dopo cinque anni, sto volentieri in questa terra

Intervista al Vescovo nel 5° anniversario dell'inizio del suo ministero in diocesi
21-04-2021

 

Il 10 aprile 2016 mons. Marangoni veniva ordinato vescovo a Padova; due settimane dopo, il 24 aprile, iniziava il suo ministero come vescovo di Belluno-Feltre. È un breve tratto di strada quello che si compie in un lustro; eppure ne sono accadute di cose. Ne abbiamo parlato con il diretto interessato.

Don Renato, Le va di confidarci un ricordo di quei giorni?

Il ricordo di quei giorni è dato dalla mia prima visita alle parrocchie. L’avevo chiesta alla fine della celebrazione di inizio ministero in cattedrale a Belluno. Ho iniziato martedì 10 maggio in Comelico Superiore con le tre parrocchie di Candide, Dosoledo e Padola. Sono giunto a Padola un po’ prima della messa prevista per le ore 18.00. Scesi dall’auto e mentre attraversavo la piazza mi venne incontro una ragazzina che mi salutò. Fissandomi disse: «Sembri uno come il mio parroco». Le risposi che era proprio così e lei cominciò a dirmi che le piaceva la storia di Gesù, di cui aveva visto anche un film, qualche giorno prima. Fu un bell’inizio: ricevevo da una ragazzina il Vangelo, l’annuncio di Gesù. Era lei l’annunciatrice! È sempre così: per dare e condividere è necessario ricevere prima e accogliere.

Dopo cinque anni ci ricordi un momento bello e quello che Le è pesato di più?

I momenti belli sono al plurale: la semplicità e la genuinità dell’incontro con le persone, con le comunità, con i confratelli preti. Mi rigenerano rispetto alla fatica dei problemi da affrontare e dell’organizzazione pastorale da garantire. Solitamente mi commuove quando in momenti di incontro le persone prendono la parola per comunicare un sentimento o un pensiero o una preghiera sul vangelo del giorno.

Mi pesa molto quando “scopro” o mi accorgo che ci si divide in comunità e tra comunità, non ci si valorizza a vicenda, ci si considera con sospetto.

Lei veniva da Padova, una delle diocesi più grandi d’Italia, mandato dal Papa nei piccoli meccanismi di una diocesi di montagna. Si è sentito stretto allora? E oggi, dopo cinque anni?

La strettoia è solo quantitativa. Il territorio di montagna è un mio habitat. Conoscevo le montagne, ma non sapevo del tenore di vita delle tante e piccole comunità montane. Non ho avuto insofferenza del piccolo. Mi ha colpito all’inizio il senso di perdita e di sfiducia che mi veniva raccontato dalle persone, anche in parrocchia, nei riguardi delle istituzioni. A volte ho constatato come le questioni in sé piccole si “ingigantiscono” in ambienti ristretti. Oggi, dopo cinque anni, sto volentieri in questa terra e in questa comunità ecclesiale che mi hanno accolto. Colgo tanti fermenti in ogni ambito, ma spesso vengono lasciati lì. Oggi mi piacerebbe che ci fosse più coraggio nel coltivarli, senza immediatamente giudicarli e ritenerli non adeguati all’esperienza già vissuta.

Guardando le foto di allora, notiamo che Lei non portava gli occhiali che oggi invece usa. Come vede oggi la Sua diocesi?

Vedo la diocesi provata – anche per questi interminabili mesi di pandemia – ma la guardo nella possibilità di vissuti autentici che in genere la gente cerca e attende. Mi sono convinto che lo sguardo più acuto e più profondo sulla realtà è quello del Vangelo. Non basta riscontrare e ribadire ciò che viene meno o che manca. Sinceramente se non guardassi questa diocesi attraverso la promessa del Vangelo, sarebbe per me improponibile “fare il vescovo”. Mi colloco in questo osservatorio “promettente”…

Vuole indicare un punto di forza e uno di debolezza che Lei vede nel nostro (nel senso che ormai è anche Suo) territorio?

Il punto di forza è che abbiamo bisogno gli uni degli altri. È decisiva questa consapevolezza: le piccole comunità la possono sperimentare meglio in questo nostro territorio rispetto ad altri contesti solo apparentemente più attrezzati. C’è tanta dose di umanità su cui confidare. Il punto di debolezza è evidente: succede tante volte e a tutti i livelli che non si oltrepassi la soglia oltre la quale, invece, è necessario operare insieme, per un sogno comune, in un progetto che ci possa coinvolgere tutti. Non è raro che ci si ritiri nel proprio spazio interessato, quando invece occorre credere e affidarsi e operare per un bene ancora da raggiungere e che vale per tutti.

Da cinque anni Lei porta anche l’anello, perché c’è una sorta di matrimonio tra il Vescovo e la sua diocesi. Prima del fatidico “settimo anno”, vediamo resistenze e forse anche attacchi. Come vive un Vescovo questi momenti?

Ho capito che occorre mettere in conto tante incomprensioni. Più volte succede che non venga considerato il contesto di quanto dico e di quanto faccio. Raramente viene chiesto: ma qual è l’intenzione e l’intento? Quando si assumono responsabilità e si devono prendere decisioni che possono destabilizzare qualcuno o qualcosa, c’è sempre un prezzo da pagare.

Ci sono situazioni in cui sono in ballo non semplicemente aspetti contingenti, ma prospettive e priorità che non possono essere trascurate o procrastinate semplicemente. In questi anni mi è successo più volte di considerare l’orizzonte verso cui andare per cui alcuni aspetti di realtà contingente o passata sembrano trascurati. In realtà si tratta di uno sguardo “oltre” necessario per non bloccare il processo in atto.

Quando Lei venne qui, la diocesi contava 163 preti; ne sono morti 28, alcuni ancora giovani e attivi. Lei punta molto sul laicato, ma – ci pare – una diocesi senza preti non riusciamo a immaginarla. Come vede questa mancanza di nuove leve?

Sono molto semplice nel rispondere a questa domanda. Dal Concilio Vaticano II, che rispolvera e chiarisce la vera Tradizione ecclesiale, le “nuove leve” non sono semplicemente i ministri ordinati. Occorre che le “nuove leve” a cui ci dedichiamo siano comunità di discepoli del Signore credibili e gioiose. Lì – in un abbraccio di fraternità – posso confidare che maturino anche ministri ordinati. Non ho mai immaginato una Chiesa senza preti, ma neppure ho mai immaginato tanti preti senza comunità ecclesiale. Smettiamola di contrapporre gli uni contro gli altri. È semplicemente ideologico e insensato. La Chiesa è – come diciamo nelle preghiere eucaristiche – «essere riuniti in un solo corpo dallo Spirito Santo».

La tempesta Vaia e poi la pandemia: due momenti di prova per il nostro territorio. Nel primo abbiamo sperimentato la solidarietà interna ed esterna. Il secondo ci sta ancora scioccando e stremando. Nella sua storia la Chiesa sempre si è adattata alle nuove condizioni. Abbiamo la sensazione che la crisi della pandemia abbia dato una sterzata a questa storia. Lei intravede qualcosa di questa nuova strada?

In questi giorni sento il bisogno di “cominciare di nuovo”. Tale atteggiamento è di chi vuol vivere e dà ancora credito alla vita. Ci si deve aiutare su questo: dare credito alla vita. Una vita però con delle novità. Le intravedo in quello che Papa Francesco ha tentato di esprimere come appello nella Laudato si’ e poi in Fratelli tutti. C’è una nuova alleanza in cui ritrovarci: parte dalla terra che abitiamo e che siamo, coinvolge la vicenda di uomini e donne che la curano e la custodiscono, abitandola come “casa comune”. Ma questo va insieme alla necessaria alleanza che persone, popoli, umanità sempre sono chiamati a cercare, preparare, attivare, rinnovare. Anche la ricerca e l’attesa di Dio in tutto questo potrebbe diventare un’alleanza a cui affidarsi…