1Cor 9,16-19. 22-23; Sal 95; Lc 10,1-9
Mentre l’evangeliario veniva processionalmente portato a questo ambone, luogo della parola, mi chiedevo se succede proprio così nella nostra vita: che ci facciamo precedere dal Vangelo, affinché illumini i nostri sentieri e perché apra il nostro camminare.
Così è stato per Antonio. Nel 1222 – 800 anni fa – quando ha iniziato il suo ministero come annunciatore della Parola di Dio, era a Forlì. Lo chiamarono perché non c’era nessuno a tenere la predicazione nella circostanza di un’ordinazione presbiterale. Partì così il suo mettersi a servizio del Vangelo.
Domenica, nella celebrazione dell’Ascensione, l’autore degli Atti degli Apostoli riportava la parola di Gesù con l’ultima sua consegna: «Non spetta a voi conoscere tempi o momenti che il Padre ha riservato al suo potere, ma riceverete la forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi, e di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino ai confini della terra» (1,7-8).
Gesù ha preso le difese del Padre e ci invita a non pretendere conoscenze che spettano solo a Lui. Gesù è realista e sa quanta distanza dalla vita e quante illusioni si possono scatenare in noi, quando il nostro rapporto con Dio diventa curiosità o anche diritto e magari privilegio. Gesù, invece, ci educa a diventare figli e figlie di Dio, così come è lui, il “primogenito di una moltitudine di fratelli e sorelle”. Il non sapere tutto non ci impedisce di vivere da figli e figlie amate. Ogni giorno siamo nella situazione di scoprirci così: di riceverci così, di riconoscerci tutti nella condizione di figli. Questo rapporto d’amore con Dio è la novità più grande e più stupenda della nostra vita. Nel racconto evangelico che abbiamo letto e che ci riporta nel cammino che Gesù fa con i discepoli verso Gerusalemme, Egli invia 72 discepoli a due a due lì dove egli stava per giungere e raccomanda loro di fare ogni tipo di bene e soprattutto di offrire guarigione ai malati a cui lasciare questo messaggio: «È vicino a voi il regno di Dio» (Lc 10,9). Non può essere semplicemente una cosa da ricevere il “regno di Dio”. È un amore che riceviamo e che ci trasforma. Un amore vero sempre ci cambia. Dio ci fa figli suoi, figlie sue. Quando Gesù dice agli apostoli nell’ultimo suo appuntamento storico con loro: «di me sarete testimoni», egli ci mette tra le mani la bellezza dell’essere figli e figlie tanto amati da Dio.
Penso che l’apostolo Paolo – qualche decennio dopo questi fatti raccontati dall’evangelista Luca – voglia testimoniare questa bellezza di essere figli e figlie amate: «Tutto io faccio per il Vangelo, per diventarne partecipe anch’io». Il Vangelo per noi significa e comporta l’entrare in questa storia d’amore che Gesù ha svelato, ha aperto, ha consegnato a tutti, vivendola sulla propria pelle. Anzi proprio Lui, il Figlio Amato da ascoltare, è questa stessa storia d’amore.
Voglio immaginare che tutti noi pellegrini siamo qui in questi luoghi di sant’Antonio perché chiediamo amore, perché in noi sentiamo il bisogno di guarire di amore, perché a volte dentro di noi e attorno a noi notiamo dei vuoti d’amore che sono vuoti di vita che ci incutono timore e paura. Il pellegrino è un ricercatore di amore. A volte siamo realmente “mendicanti d’amore”.
Sant’Antonio e il Vangelo da lui annunciato e realmente donato con i suoi gesti di attenzione, di vicinanza, di cura, di guarigione, a volte di forte denuncia di tutto ciò che contraddice la vita… sono “storia d’amore”. Nelle sue parole e nei suoi gesti ha mostrato che Dio ama i suoi figli e figlie, “fino ai confini della terra”, per sempre.