A cura di don Ezio Del Favero

77 – Il presepe delle vetrate

Quella notte i Re Magi s’irradiarono dalle vetrate, come se un sole meraviglioso li avesse resi vivi

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Era sopraggiunta la notte in quel paese di montagna. Il sacrestano aveva appena chiuso le pesanti porte della chiesa con un rombo simile al tuono. Il rumore, portato di volta in volta, di ogiva in ogiva attraverso gli archi, riempì la navata e svanì nel suolo in un mormorio di voci confuse. La lampada dell’altare, bilanciata lentamente sul suo filo, tremolava la sua fiammella rossa e ornava di luccichii fuggitivi il rame dei candelabri e il legno lucido degli stalli.

Suonarono le ore 23. Sulla via, dove stava nevicando, un gatto nero attraversò ma non c’era più nessuno e solo delle ombre passavano dietro le tende di alcune finestre. In chiesa c’era il buio e le vetrate, di giorno splendenti e incantevoli con i loro giochi di luci e di colori, erano tutte smorte nel loro merletto di pietra.

Quella notte, improvvisamente, dei Re Magi s’irradiarono dalle vetrate, come se un sole meraviglioso li avesse resi vivi: abbagliavano, accecavano. I loro toni cangianti avevano delle sfumature squisite, le stoffe erano opulente e addobbate a grandi pieghe, i visi trasparenti, gli occhi in estasi.

I tre Re si animarono e si allontanarono dalla vetrata. Il Bambino, sulle ginocchia della mamma tese loro le braccia. La Madre sorridente si alzò, con il bambino in braccio, abbandonò anche lei la vetrata e si avvicinò all’altar maggiore diafana e radiosa come portata da ali invisibili. Pian piano le vetrate si svuotarono. San Giuseppe tirò il bue e l’asino incaricati del presepio. I Magi frusciarono di seta e di velluto: l’anziano Melchiorre e il suo seguito erano carichi d’oro e d’avorio; Gaspare distendeva i suoi tessuti colorati portando l’incenso; Baldassarre sgranava collane di diamanti insieme alla mirra. I servitori a malapena trattennero i cammelli nervosi. Degli angeli cantarono accompagnati dalle arpe. Santa Elisabetta seminò delle rose soavi. Gli uccellini di san Francesco volteggiarono attorno. E arrivarono anche le Vergini, i Martiri, gli Eremiti, i Pontefici con le loro mitre, Monica abbracciata al figlio con gli sguardi lontani verso le rive dell’Africa, Erode trascinato da un diavolo peloso…

Nei buchi d’ombra e di mistero, il cielo trasportò delle stelle, formidabili, vertiginose, infinite da rendere folli.

Sull’altare maggiore si era composto il presepe, Maria cullava Gesù accanto a Giuseppe, i turiboli fumavano e tutti i personaggi s’inginocchiavano in quell’ora santa, mistica. Le labbra si spalancarono per cantare la gloria a Dio, così anche i cuori, di fronte al piccolo Incommensurabile.

Quando l’alba porpora e poi bionda tremò ai bordi del cielo, il corteo si mosse. I Magi, Maria, Giuseppe e il Bambino, i santi e le sante, gli eremiti e i pontefici, gli angeli e le stelle, gli uccellini di san Francesco e persino Erode trascinato dal diavolo ripercorsero le loro strade e ripresero le loro postazioni statuarie sulle vetrate.

Mentre il cielo ondulato si trasformava in una rete di azzurro e il sole passava in rivista le piccole nuvole, le vetrate, traforate di parte in parte, si misero a fiammeggiare. Mentre la Vergine sorrideva ancora e il figlio Neonato, l’Incommensurabile, le tendeva la manina sorridendo…


La parabola, di origine francese, è una rielaborazione di un’idea di Edgar Voirol. Quella chiesa, grazie al fascino delle sue vetrate, aiuta ad immergersi nella magia del Natale, dove il Bambin Gesù riesce a stupire, a incantare e a farsi ammirare in ogni tempo… dagli angeli, dai re, dai santi e da tutte le creature.

Caramagna:
«Il Presepe è cercare Dio nell’immensamente grande e vederlo incarnato nell’immensamente piccolo».

Papa Francesco:
«Contemplando il Dio Bambino, che sprigiona luce nell’umiltà del presepe, possiamo diventare anche noi testimoni di umiltà, tenerezza e bontà».

Trilussa:
«Ve ringrazio de core, brava gente, pé ‘sti presepi che me preparate,
ma che li fate a fa? Si poi v’odiate, si de st’amore non capite gnente…
Pé st’amore sò nato e ce sò morto, da secoli lo spargo dalla croce,
ma la parola mia pare ‘na voce sperduta ner deserto, senza ascolto.
La gente fa er presepe e nun me sente; cerca sempre de fallo più sfarzoso,
però cià er core freddo e indifferente e nun capisce che senza l’amore
è cianfrusaja che nun cià valore».